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L’importanza di una efficace comunicazione per abilitare le trasformazioni organizzative

Quando pensiamo alla comunicazione efficace ci viene in mente l’immagine di un brillante oratore che riesce a spiegare chiaramente il suo pensiero, una sua idea, una sua opinione, una sua proposta, con tale efficacia da generare immediatamente consenso e azione.

O, nella sua versione più umile e dimessa, quantomeno ci immaginiamo la capacità di poterci esprimere in modo tale da essere ascoltati, compresi e apprezzati per il contributo dato alla discussione.

Questo punto di vista è confermato indirettamente dalle definizioni che possiamo trovare di comunicazione efficace, ad es. “Una comunicazione è efficace se i tre livelli (verbale, para verbale, non verbale) sono congruenti e se la comunicazione è finalizzata ad entrare in contatto con l’altro, dare e ottenere fiducia, affermare, tranquillizzare, coinvolgere, affascinare, ottenere consenso”, “Una comunicazione è efficace quando è chiara, carismatica, credibile e persuasiva”, “La comunicazione efficace è l’espressione chiara, sincera e decisa di un pensiero, un’opinione o un messaggio in generale, dopo un attento ascolto del proprio interlocutore.”

Queste capacità sono importanti soprattutto in quelle situazioni in cui l’obiettivo della comunicazione è quello di convincere gli altri della nostra opinione e, se ciò non avviene, pensiamo che le cause possono essere ricercate in lacune di comprensione degli altri (non ascoltano o hanno un’altra agenda) oppure nella efficacia della nostra comunicazione (dobbiamo essere più chiari, più assertivi, ecc…).

L’assunzione è che la verità, o la soluzione ottimale, sia già presente nella testa di almeno uno dei partecipanti alla discussione e che vada semplicemente identificata attraverso abili argomentazioni e analisi; come in qualche modo avviene in tribunale, dove si tratta di accertare se le accuse mosse siano corrette o false, o come nei dibattiti elettorali, dove in realtà non c’è nessuna aspettativa che qualcuno degli interlocutori cambi veramente idea come conseguenza delle cose dette.

Ma questi strumenti sono eufemisticamente inefficaci, se non addirittura dannosi, in contesti dove non si può assumere che la verità o la soluzione ottimale siano già presenti prima ancora di un incontro. Dopotutto quante volte nelle riunioni aziendali gli interlocutori cambiano opinione come risultato delle cose dette? Quante volte si arriva a azioni veramente condivise e sostenute da tutti?

Queste riflessioni ci fanno intuire come sia necessario sviluppare nuovi strumenti che “mediante interrogazioni tra due o più interlocutori mirino alla correzione di un errore iniziale per giungere a una verità condivisa da rimettere sempre in discussione” o, senza scomodare Socrate, un modo per avere una “conversazione con un centro, non parti” o per “avere una indagine condivisa, un modo di pensare e riflettere insieme” per “creare possibilità e livelli di interazione radicalmente nuovi” (William Isaacs – Dialogue: The Art Of Thinking Together).

Uno dei compiti di un leader e di riflesso, di eventuali coach o facilitatori che lo supportano, è quello di creare e alimentare le condizioni affinché un insieme di interlocutori possano navigare le acque agitate delle discussioni e dei dibattiti per sviluppare e attuare le capacità di ascolto, sospensione, rispetto e espressione necessarie per passare dal dibattito tra interlocutori, all’indagine condivisa fino alla generazione di nuove possibilità, possibilità che inizialmente non erano neanche lontanamente immaginabili, oscurate come erano dai pregiudizi, dalle assunzioni e dai vincoli che, se non riconosciuti e superati in tempo, possono costituire un ostacolo quasi insormontabile per qualsiasi trasformazione aziendale.

Ma l’arte di pensare insieme ci può aprire a un percorso in cui impariamo a generare collettivamente nuove possibilità per il nostro comune futuro.

Autore: Dino Ippoliti – Business Agility & Agile Trasformation Coach

Pubblicato su 09/02/2024